In un’epoca segnata da crisi ricorrenti e da una crescente sete di autenticità, il mondo del vino italiano si ritrova nuovamente a un bivio. Non è solo questione di vendite o di esportazioni in crescita. È una questione di senso. Che cosa rappresenta oggi il vino? È ancora un’espressione culturale profonda, o è diventato semplicemente un bene di consumo come tanti?
A rifletterci è Angelo Peretti, profondo conoscitore di territori e voce fuori dal coro, che abbiamo incontrato in occasione della presentazione dei suoi due ultimi libri: Esercizi spirituali per bevitori di vino e Manuale di autodifesa per astemi. L’evento si è svolto presso la cantina Podere Ema, a Grassina (Bagno a Ripoli, Firenze), tra le colline fiorentine. Un luogo non casuale: qui il vino non è solo prodotto, ma narrato, pensato, discusso.
“La crisi del metanolo alla fine degli anni ’80,” racconta Peretti, “ha segnato un punto di svolta. Una crisi devastante che si è trasformata in un’opportunità, spingendo il vino italiano verso una crescita qualitativa importante. Ma oggi siamo di nuovo a un punto critico. Sta per cambiare qualcosa, ma è difficile dire in quale direzione.”
Per Peretti, il nodo centrale è culturale. “L’Europa ha bisogno di un nuovo umanesimo – spiega – un ritorno a una visione della società che rimetta al centro l’uomo, il territorio, il fare con senso. E in questo ‘fare’ c’è anche il vino. Senza la sua componente umanistica, il vino è solo una bevanda come tante. Non racconta più nulla.”
Un concetto che Peretti sviluppa anche nei suoi libri, in cui il vino diventa pretesto per riflettere sull’identità, il desiderio, la comunità. “Dobbiamo smettere di parlare solo di sentori, fiori, frutti. Il vino non è un quiz organolettico. Dobbiamo tornare a parlare di persone, di esperienze, di valori. Solo così il vino può recuperare la sua funzione simbolica.”
Una funzione che rischia di venire meno anche per effetto del cosiddetto overtourism, un fenomeno che tocca in modo crescente le regioni vinicole più iconiche, come la Toscana o le Langhe. “Penso a Bardolino, dove sono nati i miei genitori – racconta – che fino a metà Novecento era una denominazione di altissimo profilo. Poi l’arrivo massiccio del turismo, soprattutto tedesco, ha spinto verso una produzione di quantità, a scapito della qualità. Solo negli ultimi anni si sta cercando di tornare a un’identità più forte, grazie a giovani produttori motivati.”
Eppure, la fiducia resta. “Toscana e Langhe – afferma – hanno ancora molti anticorpi. Se ci si muove in quei territori, si vede ancora più verde che strutture turistiche. Certo, ci sono zone molto aggredite, come Montalcino, ma c’è anche una coscienza crescente. Credo che questi luoghi abbiano la forza culturale per resistere all’omologazione.”
La riflessione si chiude con una nota di speranza. Se il vino saprà tornare a essere una narrazione umana prima che commerciale, potrà ancora rappresentare un valore, un punto di riferimento, un ponte tra passato e futuro. Ma servirà uno sforzo collettivo – di chi lo produce, di chi lo racconta, di chi lo beve – per restituirgli quella profondità che lo ha reso, da sempre, una delle espressioni più nobili della nostra civiltà.