In un momento delicato per il mondo del vino, attraversato da una congiuntura che impone riflessioni profonde sul futuro del settore, c’è chi sceglie di fermarsi, tornare alla terra, e ripartire da lì. Dalla concretezza delle mani, dal ritmo delle stagioni, dall’etica di un lavoro quotidiano che riscopre le sue radici. È il caso di Pieve di Campoli, azienda agricola di San Casciano Val di Pesa (Firenze), che ha fatto della sostenibilità ambientale e umana il cuore del proprio modello produttivo.

Non si tratta di una moda, né tantomeno di un’etichetta da esibire. “Abbiamo ottenuto la certificazione VIVA del Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, che riguarda la sostenibilità nei valori dei dipendenti e delle persone” racconta Enrico Viviano, direttore dell’Istituto Diocesano per il Sostentamento del Clero di Firenze, da cui dipende l’azienda. “È una certificazione gratuita, ministeriale, che ha validato concretamente il nostro modo di lavorare, il nostro approccio quotidiano alla produzione”.

La certificazione VIVA, infatti, non è solo una garanzia ambientale. È uno strumento scientifico e trasparente che permette alle aziende vitivinicole di misurare i propri impatti su quattro aree fondamentali: aria, acqua, vigneto e territorio. Ma soprattutto, è una lente attraverso cui guardare alla sostenibilità come a un progetto di miglioramento continuo, non come a un punto d’arrivo.

“Ricevere la certificazione VIVA è per noi un riconoscimento del lungo lavoro fatto in sinergia con la natura e con il territorio” – spiega Don Giuliano Landini, presidente dell’IDSC – “Il risultato riflette la nostra volontà di coniugare eccellenza enologica e responsabilità ambientale”.

La vocazione alla sostenibilità di Pieve di Campoli affonda le radici nel paesaggio stesso del Chianti Classico, dove si estende tra boschi, vigne e chiese millenarie, da sempre parte del tessuto sociale e spirituale della nostra campagna toscana. “Stiamo valorizzando le chiese di appartenenza del territorio – continua Viviano – e stiamo portando avanti un lavoro paziente di recupero dei vigneti antichi, legandoli ai cru locali. È un modo per restituire identità, ma anche per diversificare, raccontare il vino come espressione autentica di ogni singola porzione di terra”.

Non è solo una scelta agricola: è una visione. È il desiderio di rimettere al centro la persona, come recita anche il claim aziendale, in ogni fase del processo. Dai lavoratori ai consumatori, tutto viene pensato secondo una logica di equilibrio, trasparenza e rispetto. La sostenibilità, qui, è anche sociale.

“Ci interessa fare prodotti di qualità, sì, ma soprattutto far capire come la Chiesa valorizza il prodotto e il territorio – spiega Viviano –. Per noi ogni vino è frutto di una comunità, di una relazione con la terra e con chi la custodisce”.

Questa attenzione si riflette anche nella scelta dei vitigni: Canaiolo, Pugnitello, Trebbiano, varietà autoctone spesso dimenticate, che oggi tornano protagoniste grazie a un lavoro di ricerca e valorizzazione. Accanto a loro, i grandi classici come il Sangiovese e le eccellenze della tradizione toscana, dal Vin Santo all’olio extravergine, fino a una produzione più recente: un vermut che si propone come nuova espressione di un sapere antico, reinterpretato.

Oltre dieci anni dopo la sua nascita, il programma VIVA coinvolge oltre 52.000 ettari di vigneti in Italia, ha certificato più di 500 milioni di litri di vino e ha ottenuto il massimo riconoscimento anche all’estero, con il punteggio più alto (12/12) attribuito dai monopoli scandinavi. Eppure, per Pieve di Campoli, tutto questo è solo un punto di partenza.

Ripartire dalla terra e dalle persone, allora, non è solo giusto. È necessario. In un tempo che chiede senso e visione, Pieve di Campoli dimostra che il vino può essere non solo prodotto, ma cultura, cura, responsabilità. E che la qualità, oggi, si misura anche nella coerenza tra ciò che si fa e ciò che si è.