Arrivo a Podernuovo a Palazzone in una luminosa mattinata di gennaio. Sono contenta di visitare finalmente questa tenuta, che attira la mia attenzione da quando ho assaggiato il loro Argirio, cabernet franc in purezza, durante la prima degustazione in presenza dopo il lunghissimo primo lock-down.

Zona di confine, anzi di confini, perché nei dintorni di San Casciano dei Bagni, lembo estremo della Toscana del sud, si toccano anche le terre umbre e laziali. Non c’erano in questa zona, a differenza delle non lontane Montalcino, Montepulciano e Val d’Orcia, tradizioni vinicole da vantare o rispolverare, nonostante l’evidente vocazione del luogo. Il progetto relativamente recente della famiglia di Giovanni Bulgari è partito quindi con la consapevolezza di un territorio da configurare ex novo, con l’obiettivo della più alta qualità identitaria possibile.


L’autoctono sangiovese e gli internazionali oramai ottimamente integrati in Toscana come merlot, cabernet franc, cabernet sauvignon e anche un po’ di malbec. Dalla non lontana tenuta di famiglia sul lago di Corbara vengono portate qui e vinificate le uve di Grechetto e Chardonnay che compongono il blend dell’unico bianco. La prima vendemmia nel 2009, i lavori per l’imponente cantina terminati nel 2012.


Vigne per 25 ettari sui 50 totali della proprietà. E olivi, alcuni secolari, alcuni ripiantati sul tetto della bellissima struttura che accoglie i locali di vinificazione e affinamento, immacolati, a sala degustazione (con affaccio sulla barriccaia e ancora più oltre sulle vigne), gli uffici e la sala riunioni. Lo studio di architettura Alvisi-Kirimoto ha realizzato con materiali che richiamano l’habitat enologico (vetro, cemento, legno, acciaio) un mirabile edificio caratterizzato da linee pulite, con piani paralleli e ortogonali fluidi e perfettamente integrati nell’ambiente, con la collina che accoglie e in gran parte nasconde alla vista gli elementi strutturali. La grande estensione della cantina è mimetizzata nel contesto naturale, coerentemente con una visione progettuale che ha come cardine la sostenibilità. L’autonomia energetica è raggiunta grazie al geotermico e al fotovoltaico e le emissioni di CO2 si avvicinano allo zero. La gestione del vigneto è svincolata da certificazioni per precisa scelta aziendale, ma l’adesione alle più rispettose pratiche di vigna e cantina è fatto concreto.


Il rimando cinematografico sta nell’intersecarsi fluido e sobrio delle linee, nell’ampia presenza delle superfici vetrate, che creano un dialogo ininterrotto tra interno ed esterno, con la natura sempre presente alla vista, nella levigatezza naturale e non leziosa dei materiali. Per questo mi è tornato subito alla mente un film di Roman Polanski del 2010, L’uomo nell’ombra (The Ghost Writer). Il protagonista, un Ewan McGregor splendidamente in parte, è ospite di una bellissima, modernissima villa sull’isola di Martha’s Vineyard (il celebre buen retiro del clan Kennedy, guarda caso con nome in tema), al largo delle coste del Massachusetts, incaricato di scrivere le memorie dell’ex Premier britannico. Un contesto riposante per lo sguardo ed i pensieri, al cui interno le persone sembrano scivolare, come presenze impalpabili su invisibili tapis roulants. In realtà, a questo spazio apparentemente così ameno fa da contraltare un’atmosfera che si addensa sempre più di tonalità fosche e misteriose; l’intrigo politico-spionistico trae forza e vigore proprio dal contrasto con la serenità ambientale e architettonica del setting in cui è in gran parte ambientato. Una spy-story molto ben scritta, raffinata e ottimamente interpretata, ma che nel finale a mio parere scivola un po’ verso il semplicistico e il prevedibile. In ogni caso un film da vedere, per la suspense misurata in cui gli elementi naturali giocano un ruolo importante e anche per i toni elegantemente algidi della fotografia; meglio in inverno, meglio se fuori tira un vento forte e naturalmente meglio se in compagnia di un ottimo calice di vino rosso e di anime compatibili.


Tolte le marcate similitudini strutturali, qui, all’ombra del Monte Cetona le atmosfere e le note cromatiche sono un inno alla mediterraneità. L’aria è fredda, il sole invernale colora il cielo di turchese e l’aria tersa permette di apprezzare un anfiteatro panoramico che spazia dalle torri di Città della Pieve, al borgo murato di Cetona, fino al candore innevato del picco più alto del Gran Sasso. Siamo sulla terrazza-tettoia della cantina, all’esterno della sala riunioni, una superficie piana trasformata in un prato punteggiato di olivi, con sotto di noi i grandi locali di vinificazione e la contigua barriccaia. La sensazione, vista l’elevazione rispetto alla valle (400 mt) e l’ampiezza della vista circostante, ricorda quel che capita di provare su una barca a vela, sul ponte di prua: una serenità immediata, che non chiede altro che viversi l’istante, senza domande.


Mi accoglie Thomas, dalla cortesia sobria e con un tocco british, elemento che mi fa pensare al protagonista del film. È giovane, ma bastano due frasi per constatare la sua competenza e la lunga ed articolata esperienza nel settore. Mi accompagna tra i vigneti, dove il terreno alterna la componente vulcanica del Monte Cetona a parti argillose (con presenza di argille blu) e struttura più limoso-sabbiosa alla base dei pendii.
L’esposizione felice a sud-est, priva di qualsiasi ostacolo, garantisce una ventilazione costante e per conseguenza la sanità delle uve, un microclima con escursioni termiche spiccate, che contribuiscono alla qualità e varietà del corredo aromatico.


Alla degustazione si unisce a noi Giovanni Bulgari, che con i suoi modi informali e pacati consolida ulteriormente l’impressione di serenità e sostanza che questo luogo mi ispira da quando ho parcheggiato la macchina. Mi sembra quanto mai indovinata la ristrutturazione in corso di un casale destinato ad accogliere gli ospiti per estendere la proposta ad un enoturismo di qualità. La possibilità di accompagnare la visita e la degustazione ad un’esperienza gastronomica importante è già definita. La cucina, forte delle materie prime prodotte nell’orto della tenuta, tra cui un ottimo miele, è guidata con mano sicura e felice dal giovane chef Davide Conti.

Al termine degli assaggi, un pranzo squisito nella sua apparente semplicità, presentato con una mise en place essenziale, ma curatissima e di classe, una serie di piccole portate di stagione davvero golose, con la virtù aggiuntiva di un equilibrio tra sapori e consistenze che appaga senza appesantire. Amo i formaggi elaborati in consistenze soffici ed il flan di caprino con salsa di pecorino riserva è la mia madeleine gustativa legata a doppio filo a questa esperienza.


E il vino. In questi anni si sono avvicendati un paio di enologi in cantina per concretizzare l’ambizione (missione che mi pare decisamene compiuta) di produrre vini eleganti ma ben connotati e rispondenti al territorio da cui provengono. Si ricorre a lieviti indigeni e ad un ponderato impiego dei diversi tipi di legno.


Partiamo con il bianco proveniente dalle vigne umbre, da terreni sabbiosi con presenza di scheletro sassoso con conchiglie fossili: Nicoleo, da Grechetto e Chardonnay in egual misura, dopo la fermentazione in acciaio una parte minoritaria della massa svolge la malolattica in barrique nuove di Giovanni, il nome si rifà ai figli Nico e Leo.
L’annata 2020 sta per uscire sul mercato. Paglierino brillante, profumi di fiori bianchi, agrumi ed erbe aromatiche, sorso teso e delicatamente sapido. Praticamente già pronto per equilibrio e gusto.


Il Nicoleo 2019 intensifica i riflessi e anche il naso è più esuberante: rimandi alla pesca bianca, scorza di lime, fiori d’arancio, maggiorana. Attacco ampio subito rinfrescato da una vivace tensione gustativa. Persistenza gratificante in entrambi i casi, finezza d’insieme su uno sfondo di piacevole mineralità.


Il primo rosso è il Therra 2018, blend di Sangiovese, Merlot e Cabernet Sauvignon, affinamento in botte grande, una piccolissima parte in barrique. Rubino vivido, naso di frutti scuri croccanti e accenni di pepe nero. Sorso corposo ma vibrante, tannini decisi e piacevoli. Costringerlo nella definizione di vino di ingresso mi pare penalizzante, perché è davvero un bel rosso, di bella beva.
Argirio 2016
L’unica etichetta che già conoscessi, il Cabernet Franc in versione monovitigno. Argirio gioca con il rimando alle argille (blu) della vigna. La nota erbacea c’è, ma in sottofondo e non domina un bouquet in cui emergono note di sottobosco, di erbe balsamiche e frutti neri in confettura. Al palato è materico, ampio, con tannini presenti ma cesellati, ben rispondente nelle sfumature vegetali, decisamente persistente. Mi piace, moltissimo.


A conclusione il rosso autoctono, Sangiovese in purezza dal cru aziendale Vigna del Moro, Sotirio 2017. Il nome è un omaggio al capostipite greco della famiglia, quel Sotirio Bulgari che alla fine dell’800 aprì il suo primo negozio nel centro di Roma. Affinamento di un anno in doppio tonneau, poi cemento e lunga sosta in bottiglia. La dominante qui è balsamica, di eucalipto, emergono note ferrose e di terra umida. Corpo e tannino, ma anche in questo caso l’eleganza del sorso prevale sulla materia, finale molto lungo su note di spezie e arancia rossa.

Ci sono giornate invernali che non fanno rimpiangere il tepore della primavera. Saluto e ringrazio Thomas e salgo in macchina, diretta a visitare il borgo di Cetona. Sto immaginando cosa possa essere questo posto al tramonto, poi al crepuscolo e infine con l’oscurità, con i tronchi nodosi degli ulivi illuminati dal basso e il riverbero delle candele sulle vetrate. E sono felice di apprendere che si può prenotare anche per cena, aspetto solo che le giornate si allunghino ancora un po’.


Un ringraziamento al patron Giovanni Bulgari, al mio Virgilio Thomas, a chef Davide Conti e alla sua squadra e allo staff al femminile accogliente e prodigo di consigli sui borghi circostanti.