L’Irlanda fa marcia indietro — o meglio, rallenta. L’obbligo di etichettare gli alcolici con avvisi sanitari, i famosi health warnings, non scatterà più nel 2025 come previsto, ma viene rinviato di tre anni, al 2028. Una decisione che ha fatto tirare un sospiro di sollievo a buona parte del mondo vitivinicolo europeo, in particolare a quello italiano.

A festeggiare, tra gli altri, è Paolo Castelletti, segretario generale dell’Unione Italiana Vini (Uiv), che parla apertamente di "punto di svolta positivo". Il motivo? Una misura come quella irlandese, adottata unilateralmente e senza una visione condivisa con l’Europa, avrebbe potuto generare un effetto domino pericoloso, frammentando il mercato unico e creando nuovi ostacoli per le imprese.

Ma cosa ha davvero spinto Dublino a premere il tasto pausa?

Secondo le voci di corridoio europee — e i segnali politici ne sono la conferma — la scelta è frutto di un mix di pressioni diplomatiche, allarmi lanciati da associazioni di categoria, dubbi sulla coerenza normativa e timori legati all’impatto economico su un intero settore.

Il punto centrale della contestazione è chiaro: l’etichetta irlandese, così come era stata concepita, non faceva alcuna distinzione tra chi abusa dell’alcol e chi, invece, ne fa un consumo moderato e consapevole. Un approccio che si scontra frontalmente con la linea tracciata dal Parlamento europeo attraverso la risoluzione BECA, votata nel 2022. In quell’occasione, si era scelta la via dell’informazione equilibrata, evitando demonizzazioni generalizzate, soprattutto nei confronti di prodotti come il vino, legati alla cultura e alla dieta mediterranea.

Il rinvio, quindi, non è un semplice slittamento tecnico. È un segnale politico forte: prima di imporre etichette allarmistiche, serve un confronto vero, a livello comunitario, per costruire una regolamentazione armonizzata che tenga insieme la tutela della salute pubblica e il rispetto per le specificità culturali e produttive.

Come ricorda Castelletti, "una fuga in avanti come nel caso irlandese avrebbe come unica conseguenza quella di complicare l’attività delle imprese e aumentare i costi di adattamento alle regole dei singoli 27 Paesi". Meglio allora sfruttare questi anni per cercare una via condivisa, magari attraverso una comunicazione intelligente che spinga verso il consumo responsabile, senza criminalizzare il settore.

Una visione condivisa anche da Marzia Varvaglione, presidente del Comité Européen des Entreprises Vins (Ceev), che mette in guardia contro soluzioni improvvisate e scoordinate: "Gli obiettivi di salute pubblica devono essere perseguiti in modo giuridicamente solido e coordinato. Frammentare le regole crea solo confusione nei consumatori".

In attesa del 2028, il vino europeo si prende una pausa. Ma non per restare fermo: l’obiettivo è chiaro, usare il tempo per costruire un modello europeo che difenda la salute senza distruggere un comparto che, tra tradizione e innovazione, continua a raccontare storie di territori — da Torino a Bari, da Firenze a Cagliari — attraverso ogni bottiglia.