Il 15 e 16 febbraio scorsi si è tenuta la trentunesima edizione della Chianti Classico Collection 2024, ospitata presso la storica stazione Leopolda di Firenze. Questa manifestazione rappresenta non solo l’annuale appuntamento per conoscere e scoprire le nuove annate del Chianti Classico (con circa 770 etichette presenti in fiera), ma quest’anno ha anche rappresentato un momento significativo per celebrare il centenario dalla fondazione del Consorzio Vino Chianti Classico.

Il protagonista indiscusso della Collection è un territorio estremamente rappresentativo della Toscana, che dà luce a vini ormai conosciuti ed apprezzati in tutto il mondo. Ed in mezzo agli stand di Chianti Classico, Chianti Classico Riserva e Gran Selezione, troviamo in disparte, quasi in silenzio, un piccolo banco pieno zeppo di bottiglie più piccole, dalle forme variabili, longilinee, tozze, panciute e tutte piene di un vino color oro: il banco del Vin Santo.

Sin dal Medioevo è stato presente nella storia enologica e culinaria della Toscana – anche se dobbiamo ricordare che il Vin Santo non è un appannaggio esclusivo della nostra regione – ci sono tante storie che raccontano le origini del suo nome. Una storia parla di un frate francescano che durante la peste del 1348 curava le vittime con il vino utilizzato per la messa, e forse da qui si diffuse la credenza che questo vino avesse capacità miracolose, quindi sante. Un’altra storia racconta che durante il Concilio di Firenze del 1439, il metropolita greco Giovanni Bessarione, mentre beveva questo vino, fece riferimento a un vino passito greco fatto di uva sultanina di Santorini (Xantos). I commensali capirono male la parola e Xantos si trasformò in Santos. È anche possibile ed è molto probabile che le vere ragioni siano più semplici, e questo non toglie nulla alla bontà di questo vino che è stato troppo spesso bistrattato e non adeguatamente valorizzato e considerato “come quella miniera d’oro che in realtà è”, ripetendo le parole pronunciate da Leonardo Romanelli in un’intervista di qualche anno fa.

Ed ecco le degustazioni a mio avviso più interessanti, tenendo sempre conto che purtroppo la temperatura di servizio è stata un po’ troppo alta:

  • Castello di Selvole 1996: 60% Malvasia bianca del Chianti, 30% Trebbiano Toscano, 5% Canaiolo, 5% Sangiovese. Aromi di caramello, zenzero candito e pinoli. Il palato concentrato, raffinato e pulito. Canditi presenti in bocca. Un sorso lunghissimo.
  • Sant’Andrea Corsini 2006 – Villa le Corti: Malvasia e Trebbiano. Miele di castagno. Dattero, mallo di noce, frutta secca. Note che si ritrovano anche in bocca.
  • Cianciano 2011: Malvasia e Trebbiano – Molto intenso, con note di mele cotogne, mandorla e albicocca disidratata. Di bella struttura, fresco e leggermente sapido. Di una pastosità vellutata ed elegante.
  • Rocca dei Montegrossi 2013: Malvasia 100%. Note di miele, albicocca e agrume candito, caramello e caffè. In bocca è vellutato, ritornano l’albicocca e gli aromi di caffè. Si distingue per freschezza e delicatezza.
  • Terreno 2014: Malvasia e Trebbiano. Miele, albicocca e fichi secchi. In bocca ha una nota leggermente balsamica che alleggerisce la bevuta.
  • Agricola Montefioralle Vinsanto 2019: Malvasia e Trebbiano. Albicocca disidratata, canditi di arancio e mandarino, una leggera nota di smalto. In bocca una freschezza sorprendente.

Il Vin Santo del Chianti Classico si conferma essere in forma smagliante. E forse potrebbe essere l’Araldo ideale per comunicare al mondo il proprio territorio, con tutte le sue sfaccettature e tutta la sua storia. Forse, sarebbe meritevole di avere una manifestazione tutta sua.